Lady GaGa – Born this way recensione

Oggi esce in via ufficiale il follow up di Fame. Diciamo leaked oramai da una settimana, più o meno il tempo che vi ho dedicato per trarne (spero) una buona codifica di cosa è, di cosa sarà Born this Way. Il carrozzone messo in piedi da Miss Germanotta raggiunge dimensioni oramai senza controllo, ciò che tocca diventa tormentoni da seguire e denaro a palate. Si veste da schifo (aspetta, volevo dire improponibile) e dopo che è passata ai box (chirurgia plastica) è irriconoscibile. Non scherzo, riguardatevi Just Dance. Ad ogni modo visibilità, trasgressione, sesso, sono elementi che fanno parte del personaggio, su cui Stefani ha lavorato molto e bene. Praticamente l’icona perfetta per il pop di oggi, in realtà piegato, ricodificato, adeguato a sua immagine e somiglianza da tre anni a questa parte, quando partì pian piano con Fame. Il pop è volubile ma di fronte a Lady GaGa sono tutti d’accordo e costretti a rincorrere. Merito indubbiamente di una geniale operazione di marketing oramai imprescindibile dalla musica che propone. In pratica ancora una italo-americana ben salda al comando, dopo trent’anni di Madonna e il rischio di tenercela stretta per i prossimi decenni. Tranquilli ci arrivo a parlare dell’album. Spacca, o meglio spaccherebbe. Miscela esplosiva di electropop, dance e contaminazioni di rock sparso in giro, la Germanotta furbetta non vuole rischiare un capello. Nonostante vengano fuori schitarrate di Brian May o il sax di Clerence Clemons, il compitino viene fatto senza sosprese, senza reinventare nulla. Non le si può mica imputare chissà quali colpe, il pubblico vuole un disco che suoni da Lady GaGa, quindi abbiamo prevalentemente le solite casse in 4/4 che tirano dritto, filtroni, vocoderini, tappeti grassi e potenti di sintetizzatori, motivetti orecchiabili. Quando resta sui binari della dance, la stesura dei brani stratificata e piena di effetti, saltuariamente rischiano di soffocare le buone intuizioni, ma abbiamo i momenti più funzionali e riusciti dell’album. In tali paraggi vengono fuori le sue indiscusse abilità artistiche. Il fiuto l’ha sempre. Però siamo arrivati al limite, fa (e farà) ballare lo stesso, in deluxe edition il secondo disco è ubertamarro da dare in pasto ai locali, e diventerà un successo commerciale con pochi precedenti. Ma riascoltando Fame (Monster), divertente, asciutto, essenziale, inquadrato e meno dispersivo, ci si rende conto che Born this Way non regala nemmeno la metà in brani da poter sfruttare come singoli. Le escursioni rockeggianti restano non pervenute, cade spesso nel banale citazionismo, copia-incolla di se stessa e fuori contesto soprattutto verso la chiusura. Cara Joanne Angelina, non è il disco più importante del decennio, parole tue. Proprio no.

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