recensione Tideland.

Dopo i fasti commerciali (in parte soddisfacenti) dei Fratelli Grimm, Gilliam ha confezionato Tideland finendo a elemosinare per le strade di New York nell’intento di raccogliere fondi per via dell’assenza di pubblicità in cui finisce ogni progetto indipendente. Gesto puramente ironico e tagliente critica per il sistema hollywoodiano. Sistema che ha inevitabilmente soffocato il film con meno di ottomila dollari d’incasso ma un bel “chissenefrega” è d’obbligo se troviamo cristallino lo stile dell’ex Monty. Premetto che non mi ha preso, l’ho trovato lungo, attorcigliato su una storia praticamente piatta, senza mordente. Non vi si può disquisire, una fiaba dark in cui una bambina riesce a costruirsi il suo mondo innocente filtrando la realtà che la circonda è un classico del cinema fantastico, vuoi una fiaba lontana dai canoni Burtoniani perchè bella cruda, ma pur sempre povera, come aver lasciato i piedi piantati per terra mentre l’immaginazione andava espansa senza orizzonti e creare un “mondo capovolto”. Di risposta vi sono i marchi di fabbrica del talento visionario di Gilliam, in grado di metabolizzare e amplificare le grottesche bizzarrie dell’universo creato da Mitch Cullin, facendole sue con quel tipico taglio registico: festa di grandangoli, orizzonti che ondeggiano, inquadrature deformi. Uno stile esaltato proprio dalla lontananza ai meccanismi tipici delle grosse produzioni che puntualmente tengono al guinzaglio estro e creatività. Sarebbe da vedere, ma quei meccanismi di cui sopra influenzano fin troppo bene la nostra distribuzione e da sempre esemplare in questi casi, lascia poca scelta se non aspettare il DvD o rivolgersi a qualche espediente. Sempre che non abbiate la fortuna di una sala a poche decine di chilometri.

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