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recensione Evangelion Shin Gekijōban Rebuild 3.0 Q: you can (not) redo

E così mi aggiungo alla folta schiera di fanboy dell’universo EVA che giovedì scorso ha potuto godere della monoproiezione, unica data in tutta Italia, made in Nexo Digital (mymovies, radio deejay, mtv ondemand, dynit, insomma una miriade di partners) di un attesissima terza parte della tetralogia Rebuild of Evangelion, rivisitazione dell’anime originale con nuovi contenuti e diramazioni completamente diverse della trama a cui siamo abituati. Le premesse erano altissime, forti di due capitoli precedenti ben gestiti nell’arco del climax narrativo, in particolare il secondo quando ci si comincia a staccare dalla serie classica. Benchè in origine era pensata come una trilogia, con l’ultimo capitolo suddiviso ulteriormente per macinare incassi (Q e Final) vi era tempo e materiale per consegnare ai fan di lungo corso quella occasione indelebile così tanto bramata. Mai così lontani da ciò, una verità che prende corpo e forma dolorose. Q si rivela un incredibile passo falso, un film dalla dubbia utilità se non giustificare l’ennesimo impact per il perfezionamento del genere umano, gli unici 30/40 minuti salvabili con il resto da buttare. Hideaki Anno non sa quello che vuole e non sa quello che fa. Di certo si nota come Q sia stato scritto dopo aver terminato il secondo lungometraggio e senza una idea complessiva dell’intero progetto iniziato nel 2007, una cattiva abitudine che Anno continua a perseguire. Partiamo da una apocalisse che di fatto ha spazzato via la razza umana (third impact), per l’egoismo di Shinji a volersi unire via EVA con Rei, nell’intento di salvarla. Lo spettatore verrà immediatamente proiettato dentro un timeskip completamente inedito e spiazzante. I personaggi come li conoscevamo sono profondamente cambiati, anche nell’aspetto e questo funziona, le agognate frontiere inesplorate e una buona inquietudine di fondo sugli sviluppi. L’euforia dura pochissimo. Manca Shinji e ogni fan di EVA sa che quando arriva sarà una noiosa palla al piede. Viene tirato fuori di prigione da un manipolo di sopravvissuti con a capo una Capitan Harlock Misato perchè in grado di attivare lo 01 il quale verrà impiegato dal Wunder (la nave di Misato) come fonte di energia e non come arma. Il sarcofago preparato dalla Seele viene recuperato dopo una lunga sequenza d’azione pomposa ma ben realizzata. Shinji si trova catapultato nel buio assieme allo spettatore, entrambi lasciati spaesati in un setting di 14 anni dopo il third impact. Sentimento che a malapena si risolve mentre il mosaico si compone, in un recap di insieme (intorno alla 3/4) nei quali scorci troviamo gli unici momenti riusciti. Ora il dramma. Shinji riflette, come solito l’estensione della personalità del regista, i suoi sensi di colpa, gli errori, i mille perchè e tenta come sempre di mettervi una pezza, tornando a fallire. Un loop senza fine. Lasciato senza una adeguata preparazione psicologica nei due capitoli precedenti dove interveniva il giusto, Anno ha voluto recuperare mettendolo definitivamente al centro. Con orrore e aberrazione mano a mano che il tempo scorre, torna come un pugno in faccia la snervante regressione sul tedioso, logorroico e depresso protagonista. Non vi è un percorso di crescita ma sempre una involuzione che esposta in questo modo arriva nei pressi del ridicolo. Ruba la scena per tutta la parte centrale ponendo a margine il resto del cast che sino ad ora aveva retto, cambiati quanto basta per non renderli irriconoscibili in particolare Mari (ancora non sfruttata appieno) e Asuka ridimensionata ma sempre in grande spolvero, benchè dica sempre “sei solo un bamboccio Shinji”, insieme costituiscono una coppia irresistibile. Rei sembrava a un buon punto nel suo percorso di umanizzazione ma subisce un reset sin troppo radicale, diventando metaforicamente peggio di una pera di eroina tagliata male. Su Kaworu il duetto pianoforte (echi di Death & Rebirth alquanto fini a se stessi) che sfocia in ammiccamenti (e inquadrature palesi) saffici non è materiale delicato (nelle intenzioni) quanto inopportuno. Nulla da aggiungere sul fronte Gendo e Fuyutsuki, abili a manovrare i fili e determinati, nonostante si vedano davvero poco. Insomma le manie di protagonismo del regista li pongono tutti a semplici comparse siccome Shinji non molla. Il film crolla sotto quel peso di così tanto male di vivere, una insistente analisi che sfiora l’insopportabile e capace infine di scoprire l’intera ossatura di Q, la quale scricchiola. La base resta accattivante ma lo script mostra davvero tanti limiti, pieno di molteplici particolari che si contraddicono e lasciano senza spiegazioni alimentando all’inverosimile le speculazioni dei fan in cerca di decifrarne i contenuti. Di avviso opposto le scene di azione e la maestria tecnica nell’animazione e l’immancabile score di Sagisu. Una garanzia.
Anno frustrato come non mai ci fa patire tanto dopo questo soffertone e non credo che gioverà all’economia della saga (a vedere il rating su imdb, Q è il peggiore). Da fine quest’anno il Final slitta a imprecisato 2014. Forse non è un caso. Recuperare quanto lasciato dall’incompiuto 3.0 sotto quasi ogni punto di vista, sbrogliare la criptica matassa e riscrivere l’ending della serie, adesso si dimostra una operazione abbastanza difficile e dall’esito incerto.

L’uomo d’acciaio recensione

Il ritorno di Superman è sicuramente uno dei film più discussi della stagione. Forte di un budget plurimilionario (225 milioni di dollari) è riuscito a portare a casa quasi 600 cucconi (miglior di sempre per Giugno, opening secondo solo a Iron Man 3), segno che il supereroe con mantello e la tutina azzurra (finalmente senza le mutandone rosse) ha ancora un forte affetto e curiosità da parte del pubblico mainstream, consacrando il cinecomic come il genere più fruttuoso al momento a Hollywood. Il film lo dico subito non mi ha gasato dopo l’hype circolato intorno, viste anche le qualità espresse sulla carta. Il team artistico e produttivo è praticamente lo stesso del Cavaliere Oscuro (ho scritto di Dark Knight e Rises) di Nolan, con al timone un regista visionario e controverso come Zack Snyder (300, Sucker Punch) che in fin dei conti ho sempre apprezzato. Zimmer sempre lì allo score. In pratica la Warner gioca pesante. Ma quella potente alchimia accarezzata più volte con il filone Nolaniano non ne arriva che una minima parte. Probabilmente il miglior Superman dei giorni nostri, la migliore incarnazione possibile non è assolutamente in discussione. L’inizio è praticamente epico. Poi arriva il fardello della genesi e formazione del personaggio sulla Terra, i dubbi, le paure di Kal-El. Qui il plot sembra incollato male, quasi mancano dei pezzi con parecchie battute scomposte e salti tra flash back e altro che affossano e peggio annoiano la visione, diventando difficile da seguire. L’impegno della durata è al limite, non si può allungarlo di altri 20 minuti forse necessari nel montaggio. Non aiuta la peggiore Lois Lane mai vista in 40’anni di trasposizione del fumetto (che mi scala un ghiacciaio come niente fosse, sempre fuori luogo e alla fine ti sta anche sulle palle). Poi arriva Zod. Con le sue motivazioni, con la sua rabbia a tal punto che non lo si può biasimare. Il sussulto, il crescendo. Un espediente quantistico assolutamente inverosimile (ok sempre fantascienza però gli occhi strabuzzano lo stesso, compreso un WTF?!?) ma pazienza. Si vola con l’arrivo dei Kryptoniani, letteralmente lo schermo esplode nel cercare di contenere tutta quella imponenza visiva che confluiscono in un finale da spacco tutto devastazionale sbalorditivo, lunghissimo che non lascia fiato e da applausi. Senza precedenti. Superman addirittura incespica, sembra non farcela. Sa che sono suoi fratelli ma adesso la sua casa è la Terra. Si sveglia e asfalta quel poco rimasto di Metropolis. Il personaggio è pronto. Rimane solo quel senso di incompleto, di ottimo con qualche riserva. Ma la fiducia per il futuro seguito permane, visti i vari rimandi nel film a Luthor (quasi impercettibili anche quelli di Wayne) le basi per qualcosa di veramente importante ci sono con il villain per antonomasia, un climax di quel calibro anche se Superman non è chiaramente Batman e Lex non è il Joker. Però la ciccia succosa ci sta tutta. E poi chissà, almeno per arrivare ai livelli dello studio Marvel. Magari al sapore di Justice League.

Star Trek XII Into Darkness recensione

WARNING! La recensione verte su alcuni punti chiave e scelte tecnico/stilistiche della trama per cui vi sono SPOILER.

Con qualche giorno di ritardo giustificato per vederlo in tradizionale 2D, Into Darkness alla fine è stato metabolizzato. Le premesse erano parecchio alte, visto il buon lavoro di reboot operato dalla Bad Robot, parere non solo personale visto che a oggi quest’ultima operazione del franchise sta portando avanti il primato di lungometraggio Trek con il maggior incasso di sempre. E se le basi del primo non erano all’altezza, i risultati al boxoffice sarebbero ben differenti. Purtroppo partire gasati in sala non è mai una mossa furba. Into Darkness è un buon film, purchè si lasci da parte la visione Star Trek più classica d’insieme. Ho sempre sostenuto come nei reboot si devono tenere a mente omaggi alla memoria storica ma conseguire una propria strada, con le opportune libertà, senza strafare. J.J., Kurtzman, Orci e Lindelof hanno prodotto un ottimo script con riferimenti per non dire copiare spudoratamente l’Ira di Khan, ribaltandone il sacrificio estremo e travisando alcuni parametri fondamentali a scapito di un barlume di coerenza secondo me necessaria. Parlare di fisica in Star Trek è ardito, ma da trent’anni sparare con i phaser a curvatura NON SI E’ MAI VISTO nemmeno negli scorci di futuro tra le varie serie, uscirne poi in derapata fa accapponare la pelle. E’ impossibile, certo se si sanno le regole in gioco. Colpire con delle bordate di missili le gondole della nave equivalgono a far saltare il nucleo e vaporizzare la nave. DA SEMPRE. Assolutamente inqualificabile la missione da caccia all’uomo ricerca e uccidi, con buona pace delle basi morali all’interno della Federazione. I Klingon con l’elmo, guerrieri con onore e guerra nelle vene, incazzati duri NON RILEVANO UNA NAVE NEMICA alla DERIVA nel loro SPAZIO natale?!? Se sono il gancio per confluire su uno scontro impero/federazione inevitabile, siam messi bene. 72 testate che esplodono in pancia a una qualsiasi nave, di tale nave non rimane nemmeno un pulsante della plancia di comando. Chekov in sala macchine? a 17 anni dove ha imparato le competenze necessarie se è un navigatore? Carol Marcus (Alice Eve) in mutande è un bel (succoso) vedere, ma il personaggio è posticcio, così come le discussioni sentimentali tra Spock e Uhura assolutamente superflue. Teletrasporto portatile che ti porta a Kronos con un click facciamo finta di non aver visto. Queste sono tutte seghe da fanboy che urtano fino a mezzogiorno il mainstream, il problema arriva quando alcune escono dal fanboysmo trekkiano e diventano vere e proprie storture contro logica. Perchè all’inizio nascondere la nave sott’acqua, era duecento volte più sicuro restare in orbita, e visto che si può teletrasportare Spock a un passo dal venire incenerito, non lo si poteva mettere prima evitando i rischi con la navetta? Da quando una eruzione fa saltare in aria un pianeta? Scotty che prima si aggrega a un convoglio di navi presso uno spaceport segreto, poi gira all’interno della Vengeance sempre senza che lo becchino (tranne all’ultimo, colpo di scena) quando parliamo di una delle navi più avanzate della Federazione è incongruente. Insomma un minimo di struttura me la devi mantenere. Disastro totale? In realtà messi da parte (ce ne vuole) i vari tecnicismi trekkiani e passando sopra le citate castronerie, il film resta godibile, visivamente emozionante, con la recitazione del villain che da solo vale il prezzo dello spettacolo. Comunque resta l’intesa del cast come da tradizione per la saga sebbene vi sia uno Spock troppo rompicoglioni. Serrato ma meno frizzante del precedente, ho trovato qualche sussulto tra ritmo nelle scene d’azione che di fatto sbandano un pò la visione, della serie alti e bassi. Il personaggio di Peter Weller (il mitico Robocop) meritava maggiore profondità, ma son dettagli. CGI e score come sempre da impatto positivo. J.J. conferma l’essere uno dei registi pigliatutto del momento e gioca facile con materiale tratto da roba già vista e prevedibile (come il recupero di Kirk) che piacerà a un vasto pubblico, in quanto ogni tassello va al suo posto. Scontento per lo zoccolo duro, di fatto non trainante per gli incassi anche se puntualmente andranno sempre a vedere al cinema, divertente per passare la visione con un film fantastico di prim’ordine, con buona pace nostra e gioia per la Paramount. Il brand continua la sua corsa verso la missione quinquennale ma sapere il regista alle prese con Star Wars mette qualche dubbio, nonostante quanto detto. A meno di aspettare più di due anni per cominciare le riprese e altri due tra produzione e post-produzione, si schiva il cinquantenario della serie (2016) e Paramount lo vorrebbe festeggiare. Chi prenderà in mano la baracca?

Iron Man 3 recensione

Dove comincio? Quasi totalmente deluso. Nessuno si aspetta una maestosità di chiusura per una trilogia alla TDKR, siamo in universo Marvel, ci mancherebbe. Ma la caduta e rinascita psicologica, emozionale e tecnologica di questo supereroe meritavano tanto di più. Premesse e trailer davano quasi per certi epicità e conclusione con il botto, merito di un secondo episodio non frizzante come il primo ma di sicuro trampolo (a cui aggiungere gli Avengers). Serietà ed ironia, visto Downey sempre mattatore nei panni di Stark, sono d’obbligo ma non così, non di continuo ogni volta che apre bocca. Sgonfiato quel poco di epico rimasto, ecco che vengono fuori gli scricchiolii come parecchie incoerenze, buchi di trama, valanghe di personaggi messi per riempire e ridotte a mere comparse. Si lascia correre la rivisitazione del Mandarino, l’Extremis e un villain giù di tono, di certo non tiene testa a Stark. Non passano le idiozie alla Disney, il far ridere a ogni costo quando non serve. Merito di politiche sempre più rivolte al mainstream, piuttosto che la fanbase, magari quando si aspettava un cinecomic più maturo, meno ingenuo e facilone, ma ben coeso e affiatato come gli Avengers. Ok, vi danno gli effetti speciali super turbo che giustificano il budget stellare ma alla fine cosa rimane? Un cliffhanger dopo i titoli di coda da dimenticare… I più integralisti lo perdoneranno per un pelo, il pubblico di massa ne ingigantirà gli incassi stratosferici e alla fine ai Marvel Studios (e Disney) va benissimo così.

Cloud Atlas recensione

Al rientro dalla visione qualche impressione. Cloud Atlas scritto e diretto a sei mani, così come sei sono i segmenti temporali in cui si salta in maniera abbastanza coesa ma non di facile lettura, sul destino che si ripete ineluttabile, quasi una condanna, indipendentemente dall’epoca. Cast spettacolare, produzione pure e mi sono stupito sia costato così poco produrlo (100 milioni). Da vedere ma prima di buttarvi in sala occorre almeno qualche riserva. E’ ambizioso, complesso e stratificato ed effettivamente di difficile catalogazione. Immaginate un commistione di generi, drammatico, commedia, fantascienza, spionaggio, avventura, azione, tutto ben dosato mentre tocca temi come amore, spiritualità, evoluzione. Smarrirsi è un attimo. Anche se alcune linee temporali lo appesantiscono e la prima parte fa un pò annaspare, man mano i pezzi si compongono l’amalgama collima e acquista una buona fluidità, lasciando finalmente spazio allo stupore, con scorci di paesaggi e visioni del futuro da tipico cinema Wachoski. Meraviglia finalmente ma dopo una iniziale iniezione di perplessità. La quale purtroppo perdura, rimanendo lì in sottofondo e pronta ad uscire, causata da un lasciato senso di incompiuto mentre scorrono i titoli di coda. Cloud Atlas vuole essere maestoso ma non ci riesce (per poco) in quanto non capace di sviluppare bene tutti i punti che va a toccare. Stretto nei suoi 172 minuti, una durata importante, difficile chiedere di più allo spettatore.

007 Skyfall recensione

Dopo qualche anno di attesa arriva il terzo capitolo del reboot di 007 partito nel 2006, il quale offre ancora Craig, piuttosto rodato e a suo agio nei panni della spia inglese per antonomasia e ciò aiuta l’intero svolgersi del film nell’impianto produttivo, ovvero scenico e registico. I reparti collimano e cullano l’amalgama in uno tra gli action drama più interessanti della stagione. Lo spettatore si sente coinvolto e a visione ampia non delude le aspettative risultando un ottima visione, magari da non perdere in sala ma almeno da recuperare in home video. Via ogni legame con i precedenti episodi, per quanto mi spiaccia, non che Quantum regalò emozioni ma la soluzione di continuità poteva rivelarsi a doppio taglio e un mezzo tonfo come lo scorso, rischiava di mandare nel limbo il proseguimento del carrozzone. Royale/Quantum rimarrà probabilmente precedente a se stante, del resto unico in oltre 50’anni di saga. Skyfall parte secondo copione ovvero immancabile inseguimento a uomo ai limiti dell’inverosimile e successivi titoli di testa evocativi e mai così belli. Sul serio questo giro han fatto le cose in gran stile. Il film ci porta di fronte a un Bond in caduta libera (skyfall, grazie) e si plasma una scomoda verità ovvero l’essere a rischio rottamazione. Sbaglia a sparare e non è sicuro come un tempo. In più l’intero MI6 vede M prossima al pensionamento e un intero sistema di intelligence oramai da rivedere. Insomma il nuovo che avanza ce lo vedremo tra le righe sino alla fine (pure Q), che sia amico o nemico. Ma il giovane non è necessariamente garanzia di innovazione e la vecchia maniera direttamente sul campo risulterà ancora efficacie. Ciononostante occorre iniettare lo stesso qualche spunto fresco per gettare le basi del futuro e avremo un paio di innesti nuovi e qualche colpo di scena. Il meccanismo ben puntellato da Mendes non va comunque liscio fino in fondo. Passino parecchie chicche da fanservice, ma un Bond intimista non me lo aspettavo, così come niente location esotiche e Bond Girl di turno sottotono (sebbene un motivo ce l’ha per essere tanto in secondo piano). Una direzione diversa dal solito che francamente mette qualche punto interrogativo su come decideranno di proseguire. Parlo della tendenza a intavolare la trama all’interno del teatro politico odierno e come destabilizzarlo fatto di attacchi terroristici e multinazionali ma con un James Bond non so quanto possa funzionare, sembra fuori contesto. Resta una mia impressione. Chissà se mi rimetteranno il vecchio scienziato pazzo che vuole conquistare il mondo, alla Dr. No per intenderci. Beh, una Aston Martin DB5 (quella di Goldfinger) ce l’hanno messa, quindi dai ancora uno sforzo. Menzione d’onore per Bardem nei panni dell’antagonista, se in “non è un paese per vecchi” aveva regalato una grande performance, si riconferma anche qui, lucido e metodico nella sua vendetta, protagonista di un monologo iniziale che da solo vale l’intero prezzo del biglietto.

Total Recall recensione

Stavolta roba veloce come scheda… Tra una esplosione, un inseguimento, una scazzottata, tra una esplosione, un inseguimento, una scazzottata, tra una esplosione, un inseguimento, una scazzottata, due dialoghi, tra una esplosione, un inseguimento, una sparatoria, un dialogo buttato lì, una scazzottata, tra una esplosione, un inseguimento, qualche tempo morto, una scazzottata, una sparatoria, sparatoria, sparatoria, sparatoria, ultra mega sparatoria, tra una esplosione, un inseguimento, una scazzottata, tra una esplosione, un inseguimento, una scazzottata, ci si chiede quando parte il film. Tornando seri due secondi, da una realizzazione tecnica di altissimo livello, Wiseman riadatta la storia di Dick e traccia un plausibile scenario socio-politico piuttosto inquietante e funzionale. La traversata della Terra di due mega stati agli antipodi sull’orlo di una guerra per mancanza di spazio vitale (solita guerra biologica pesissima, ma basterà una maschera antigas per sopravvivere) è certo meno accattivante di un Marte, mutanti e altro comunque vi erano le basi per qualcosa di consistente, della serie nei paraggi di un cult a ricco budget. Purtroppo in pieno stile americano e fracassone, la virata full-action oberata di esplosioni, inseguimenti, sparatorie e scazzotate (lo rimarco per bene), parecchie contraddizioni e scene fiacche come buttate tanto per giustificare la durata, provocano sbadigli. Vi sono piccoli omaggi al classico di Verhoeven però messi a fanservice, inutili. Una struttura poco interessante e mal coesa, faranno dimenticare rapidamente questo remake, sebbene non esattamente 1:1. E per certi versi era meglio se lo fosse stato: più genuino e meno sfarzoso.

Voices of a distant star

Beh quando pensavo di andare a ninna e invece avevo finito di “recuperare” questo cortissimo anime. L’opera prima di Shinkai merita il plauso per la completa realizzazione artigianale e lo sforzo profuso nel dipingere una trama incentrata sulla distanza, la difficoltà di comunicare che può spezzare un rapporto e la volontà nonostante le avversità di mantenerlo. Contrasti fortemente drammatici ma al tempo stesso carichi di poesia. Voices non dura praticamente niente, ciò ne risente per una maggior introspezione dei personaggi e background ma non lo biasimo assolutamente in quanto il messaggio è semplice e diretto, senza fronzoli. In più se animazioni e mecha design non sono all’altezza, addirittura è stato fortemente criticato per questo, vorrei rimarcare un paio di cose. Primo è stato fatto come detto praticamente in casa e non ha avuto a disposizione un team tanto che i doppiatori originali erano suoi amici, secondo lo vedo come una sorta di demo che effettivamente ha proiettato l’autore verso lidi più importanti. Infine rappresenta una sorta di assaggio per il futuro 5cm per second (che caldamente vi consiglio di recuperare), vero capolavoro e dove amplia e sviluppa tali tematiche con il giusto respiro e mezzi tecnici più adeguati.

Prometheus recensione

Visto Venerdì scorso oggi ho avuto la voglia di buttare un paio di opinioni. Di premessa voglio dirvi che per me la fantascienza rappresenta il genere cardine e a me preferito, motivo per cui spero di riuscire a darvi una buona critica. Prometheus poteva (e doveva) essere il ritorno della fantascienza nel mainstream in grande stile, premesse altissime visto il brand a cui fa riferimento e il regista lo stesso del primo che ha dato origine a tutto un filone nel lontano 1979. Il palese prequel di Alien (a scapito di chi andava a dire velato) dipana alcuni dubbi della mitologia Aliena come lo Space Jockey (per quanto non sia lo stesso, non ci troviamo sul mitico LV-426 ma su un vicino LV-233), l’astronave e che cavolo era successo, qualche abbozzo sull’origine dei creatori umani (avete letto bene) e esperimenti biologici (gli Alieni) ma ne apre di abnormi. Purtroppo, non crediate di vedere risolto qualcosa. Qui non ci piove che lo zampino della FOX si sia manifestato, soprattutto nel finale completamente da cestinare ma se letto come chiave necessaria per approntare un film ponte per ragioni ovviamente commerciali tanto da riattaccarsi all’intramontabile primo episodio, ok lascio correre, allarghiamo ancora l’universo. Ma i problemi di Prometheus sono molteplici, tanti, troppi e dove non dovevano essercene. Partiamo con il gioco oramai logoro dell’eliminazione sistematica dell’equipaggio, motivato con uno dei pretesti più ovvi (e banali) che mi sia capitato di vedere, quasi fosse accessorio. Pazienza, ancora lascio correre. E’ la crew stessa che toppa alla grande. In questo genere è praticamente il cuore pulsante, se non funziona le conseguenze sono immaginabili. Poco mordente, coesa, nemmeno affiatata o memorabile. I fan di vecchio corso si saranno gasati per le battute memorabili di Hudson (Bill Paxton), il leader dal sangue freddo Hicks (Michael Biehn), Apone e tutti gli altri, non solo in Scontro Finale anche negli altri della saga (sì anche la Clonazione) abbiamo uno studio più accurato dei personaggi. Quasi a farci dispiacere quando finiscono nel tritacarne. Prometheus offre una serie di comparse che nemmeno si arriverà a caratterizzare eccetto la Rapace, per forza se deve ricoprire il ruolo di Ripley/Sigourney Weaver parte II, un bravissimo Fassbender nella parte del solito Androide, la Theron nonostante ci venga mostrato il suo sederino (con svariate screpolature oramai) è sempre capace, ma perdiana in un ruolo che te la fa proprio stare sulle palle. Completamente inutile. Tutte le figure principali del cast restano invischiate e vittime a loro volta di una sceneggiatura sbrigativa (nella seconda parte accelera e diventa ingestibile) che non coinvolge e peggio minata da incredibili scivoloni, veri e propri gesti stupidi e situazioni grottesche che ne danneggiano il fluire, portando a singhiozzo la visione. La libertà nel genere deve mantenere un certo equilibrio o la “credibilità” e con essa la portata del film, franano inesorabilmente. Si salva qualcosa? Sì, la produzione. Visivamente imponente e tecnicamente ineccepibile, il design di veicoli, la ripresa degli ambienti e l’ampio respiro assieme a una fotografia superba ed effetti speciali di prim’ordine (bestiario raccapricciante, nel senso buono), piazzano Prometheus veramente in alto negli standard qualitativi. Una vera gioia per gli occhi. Chiaramente non basta a sollevarne il giudizio. Di fatto Prometheus aveva grosse potenzialità lasciate inespresse. Auspico una eventuale extended edition per l’home video, magari un montaggio più disteso e meno sfilacciato soprattutto nel secondo tempo.

EVA recensione

Tra le ultime uscite nei paraggi vi consiglio di non perdere EVA o riservarlo per visione futura (peccato per la distribuzione che praticamente non esiste, uscito lo scorso 31 Agosto, almeno così dovrebbe essere stato in Italia), a patto di essere fan della fantascienza. Ho sempre apprezzato in questo genere un approccio verso spunti di riflessione e qui nello specifico sul rapporto uomo/macchina, le emozioni che possono avere e come replicarle. Sorretto da una solida narrazione come il passato che riaffiora e l’analisi introspettiva tra i protagonisti. Siamo tra le parti di A.I. di Spielberg, ma con un tocco fondamentalmente più raffinato e meno strappalacrime. In Spagna (dove è stato prodotto con poco più di 5 milioni di euro) ha raccolto 3 Premi Goya e il regista Kike Maíllo è stato iniziato alla settima arte da un “certo” Guillermo del Toro. Originale e geniale allo stesso tempo il sistema di costruzione della personalità dei robot, lo stile molto retrò nonostante siamo nel 2041 e la capacità di ribaltare a sorpresa le prospettive, lo elevano a piccolo gioiello. Che cosa vedi quando chiudi gli occhi?

Pure, Svezia sinonimo di qualità.

Se siete appassionati di Cinema, vi consiglio di buttare l’occhio su MUBI. In vetrina una selezione del cinema Scandinavo e sono capitato su questo, che alla fine non è male considerato il costo zero per la visione, e intendo nemmeno ci si deve registrare. Provatelo, se apprezzate un tipo di cinema moderatamente impegnato. Del resto non c’è solo Lars Von Trier da quelle parti…
Ah un mio commento? Tra Mozart e Kierkegaard si dipana la storia di questa ragazza nel tentativo di attuare una propria scalata sociale e fuggire dalla propria condizione. L’interessante prova intellettuale della regista ma soprattutto della Vikander, mantengono il film su un discreto e appagante livello. Vuallà.

Il Cavaliere Oscuro: il Ritorno recensione

All’anteprima nazionale esco felice ed emozionato come un bimbo, con la tremarella e le mani sudate (beh è stata più lancinante l’attesa), la fine della trilogia per eccellenza, non si potrebbe dire altrimenti, di Batman è destinata a lasciare una traccia permanente nel mondo del cinema, nella sua magia a concretizzare su schermo tanto stupore, con tanto di esplosione d’applausi in sala al termine. Ogni film della trilogia ha una sua anima, una sua struttura. L’importante è non cercare inutili paragoni con i precedenti. The Dark Knight è un film epico e a suo modo diverso, coeso e tenuto in piedi dal villain per eccellenza dell’universo di Kane, ha ben altro carisma al di là di Ledger. Bane non è il Joker per intenderci. Begins con Spaventapasseri (qui ancora presente ma ai bordi del cameo) getta le basi che poi verranno compiute in Rises, cui nolente o dolente è l’epilogo che deve chiudere ogni tassello. Ha una economia complessa da gestire e si vede negli oltre 160 minuti. Tirato nella prima porzione dopo il rapimento di uno scienziato, scende con parziale sfilacciatura sui piani nella trama, sussultando nei toni drammatici, per poi arrivare a un crescendo esplosivo ed inarrestabile. Sebbene la scena principalmente se la piglia Bruce Wayne, Bane antagonista si è rivelato la scelta migliore e più verosimile per redimere Gotham, seriamente sull’orlo del baratro. Tecnicamente nulla aggiungere, sia come regia, fotografia e impianto speciale. Superiore ai precedenti film è semplicemente oggettivo. Tutto il cast a cui Nolan ci ha abituato, compie a dovere ogni compito, compresa Anne Hathaway, che fa sbavare nei panni di Catwoman e Caine (Alfred) che è quasi riuscito a commuovermi e Oldman, beh, anche un cartonato di Gary terrebbe in piedi la pellicola. Zimmer è sempre stato potente nello score ma stavolta è letteralmente scatenato. Le storte vi sono, venali e solo responsabili in fase di doppiaggio, massacrante Bane, non ci siamo, farlo parlare senza accento era troppo difficile? Renato Mori peccato non ci sia stato per Freeman (Fox).

Non vorrei trovarmi nei panni della prossima crew che porterà nei prossimi anni sul grande schermo il pipistrello, ma Nolan, da grande Maestro contemporaneo, ha lasciato tutto in ordine (niente spoiler) per andare avanti. E’ impossibile chiedere di più: una conclusione così drammaticamente ampia, spettacolare, con un crescendo incontenibile e travolgente, porta Rises sui lidi del Maestoso. Resterete sbalorditi.

(oppure totalmente schifati, sicuramente non indifferenti).