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Daft Punk Random Access Memories recensione

Otto passaggi in due giorni, possono bastare. D’accordo anch’io ho ceduto a un leak (stranamente di qualità decente) ma niente pirateria spudorata, l’obolo del mio contributo arriverà non appena lo caricano su Music Unlimited (pochi giorni siccome la columbia è di sony) a cui sono iscritto. Arrivo al dunque subito, zero premesse. Devo ammettere una delusione piuttosto marcata, un album che suona morbido, elegante, raffinato da una parte ma fuori contesto dall’altra. Con RAM posso definitivamente mettere nel cassetto dei bei ricordi (e tenere in playlist) i primi due album con una riserva per Human After All che mi fece piuttosto brutto (allora e pure oggi) ma almeno era dance/elettronica. Drum machine fissa a 4 tempi e tecnologia sintetica, miscelati in salsa filtered french house grezza e via pari. Sogno da hype di un lavorone sublime dopo aver accarezzato l’ost di Tron qualche anno fa e una Get Lucky come botto di singolo che ci poteva stare, erano presagio di sommo gusto. A parte che non mi devi suonare tutto così. Get Lucky è la massima espressione, la massima summa dopo 8 anni di silenzio trovano infine un disco con collaborazioni preziose. E se Pharrell oramai lo troviamo anche nelle patatine, usare Nile Rodgers vuol proprio dire andare a colpo sicuro. Assieme a lui (e tutti gli altri) si avverte classe negli arrangiamenti, di fatto ben costruiti e che scorrono senza intoppi a parte qualche lento da “il tempo delle mele” di troppo. Confezionato ad hoc lo si era capito ma il divertimento e l’ispirazione originali sono scemati. Perchè non inventa e peggio non reinterpreta questo sound già sentito. Inventare è durissima ma almeno mettici del tuo. Ricorda Tellier, i Phoenix, del funky chic anni ’70, italo disco anni ’80 (grazie, se sfoderiamo Giorgio Moroder) e comunque NON E’ DAFT PUNK. Non si sta sentendo nulla di nuovo e nemmeno nulla di loro. Nulla per due. La scena dance attuale vede dei Skrillex, dei David Guetta e fin qui poco da obiettare. Ma nessuno vuole i due robottini francesi mettersi lì a produrre roba del genere per un paio di motivi, primo sono tagliati fuori tempo e diciamolo non ce li senti proprio a fare della dubstep/prog house commerciale. “Doin’ It Right” con il Panda Bear da uno scorcio di remota memoria per un album altrimenti fiacco, senza traino. Con “give life back to music”, “fragments of time” e “instant crash”, tipo di brani che possono finire in playlist sciccose durante un aperitivo a fare il mandrillo con le tipe. Ma a catturare l’attenzione e il richiamo al ballo ce ne passa. Del resto, chissenefrega del fanservice? Mettere da parte i Daft Punk da Alive 2007 in giù. E lo troverete godibile. Lo zoccolo duro è avvisato.

Autechre Exai recensione

Sean Booth e Rob Brown tornano sulle scene dopo 3 anni dal binomio (riuscito a mio parere) Oversteps/Move of Ten EP del 2010. Come tempi embrionali e successivo sviluppo siamo praticamente nella norma, un pò in sordina l’annuncio nello scorso Dicembre, ma ora è qui. Le oltre due ore di avvitamenti electro/IDM del duo inglese sono attualmente disponibili in via ufficiale solo in digital download, mentre gli afecionados dei supporti fisici, che siano in CD o vinili, dovranno attendere il prossimo 5 Marzo. Non ho resistito. Exai chiara allusione romana al numero 11 come disco di studio, ci riporta a un suono non proprio dolce, di quello che necessita ripetuti passaggi per coglierne le trame e le chiavi di lettura. Fleure, Irlite e Prac in apertura ci ricordano gli Autechre di un periodo mai accantonato (il ciclo Confield, Draft e Untilted per esser specifici), fatto di rarefatte escursioni ambient, ritmi sincopati e controtempi, noise e glitch a volontà. Personalmente un pò fine a se stesso. Poi Jatevee con il suo basso atonale e quasi in contrasto con il tappeto riverberato, sembra portarci su un piano più congegnale di ascolto, rafforzato dal successivo Ti Ess Xi (un pò mi ha ricordato qualcosa dei Boards of Canada in Geogaddi). La porzione seguente fa una leggera marcia indietro e ci ripiomba in un brodo oscuro e decadente (tuinorizn) e ancora riverberi alla deriva (bladeroles) o panning distrurbanti che francamente non ascoltavo da un pezzo (nodezsh). Occorrerà aspettare di attaccare spl9 per cominciare a ragionare, graffiante, acido da trip duro. La migliore track. Cloudline prosegue nell’orgasmo, strizzando l’occhio ai Plaid (altro gruppo storico in carica alla Warp Records) come stile. Recks on piccola autoreferenziale citazione ai periodi ambient di Tri Repetae, che confluisce magistralmente in chiusura. Durata importante e atipica, Exai spezza un pò il ciclo a cui ci eravamo abituati dai tempi di Quaristice, per tornare a una sperimentazione più marcata, eseguita però con un intelligente crescendo senza smarrirsi, senza inutili iperbole, a parte in qualche scorcio, messi un pò a riempitivo. Comunque sono proprio in gran forma.

Deadmau5 Album Title Goes Here recensione

E’ uscito da un paio settimane il nuovo album del topo morto, dopo un periodo abbastanza prolifico fatto di singoli e varie collaborazioni. Devo ammettere che però non mi ha convinto un granchè. Il disco dopo una buona partenza anzi direi a razzo, Zimmerman non fa altro che il proprio compitino, bene come sempre. Ottima produzione, stile inconfondibile, suoni e quant’altro per far sbavare i fan dell’electro/progressive house. Però in passato era più bravo a osare e non come oggi votato alle leggi del mainstream e diciamocelo del denaro, con il minimo sforzo sindacale. In poche parole siam sempre lì. Qualche traccia la spunta (nel video qui sopra ad esempio) ma la parte finale scivola nello smarrimento e in una zona nei paraggi della noia.

Pop ipnagogico

Domenica buttata nell’ascolto musicale, ritornata la piacevole fotta per la musica, poi si ripresenteranno le altre, per ora chissenefrega. Così mentre la macchina analogica riprende il possesso del mio corpo per tornare glaciale come status medio emozionale, questo genere ha pure un nome. Pop ipnagogico. Ma vi rendete conto? Cazzo vuol dire? Ondarock ha una risposta esauriente per palati esigenti. Io ero rimasto a termini più terra terra, un remember della wave anni ’80, fatto sta che si chiami come si vuole, questi stratificati suoni di gomma mi fanno godere come un riccio. Sesso cerebrale. E nel prossimo djset ce li butto dentro. Almeno un brano di questo Dio del New Jersey, al secolo Com Truise, che ci ero passato ma non nelle produzioni più recenti. Va bene tutto ma un nome del genere, dai…

Amy Winehouse – Lioness: Hidden Treasures recensione

Dunque. Quarto disco nella top come “opening weekend” per la UK Chart in questo 2011, quasi 200k copie vendute e in America ha replicato con gli stessi numeri. Il mercato musicale ha ancora “fame” della singer inglese scomparsa lo scorso Luglio. Personalmente non l’ho mai presa in simpatia, tanto meno come artista (Rehab mi era uscita letteralmente dai coglioni), è innegabile riconoscerne i meriti di aver detto la sua, l’essere un talento. Anche in modo prepotente con la sua pasta vocale, più della sconnessa e disordinata vita privata. “Back to Black” o “Love is a Losing Game” per citare le mie preferite, sono brani che rimarranno nella storia. Ad ogni modo è arrivato sugli scaffali (digitali o meno) a inizio mese questo postumo Lioness. Ben precisare che non si tratta di un album da studio, quanto una opera di raccolta operata dagli storici Salaam Remi e Mark Ronson. Trattandosi di demo, outtakes (brani tagliati fuori dal disco finito), cover, tributi, collaborazioni e fondi di magazzino registrati tra un momento di lucidità e l’altro, avranno sudato le proverbiali sette camice per mettere in modo organico ed omogeneo il materiale a disposizione. Si deve ammettere come siano riusciti a farlo in modo magistrale, prima di tutto senza strafare nella scelta dei brani per stile e coerenza, poi il suono in termini di produzione. Certo che i tre inediti proposti “Between The Cheats” “Like Smoke” e “A Song For You” (l’ultima registrazione in ordine temporale al 2009) non danno una chiara direzione sul futuro della singer e su ciò che avrebbe portato alla musica. Del resto dal 2009 nonostante cercasse di cavare fuori qualcosa per il terzo album, oramai era già andato tutto a rotoli nella testa della Winehouse con il finale che ben conosciamo. Ma “Our day will come”, scarto di Frank del 2003, furbescamente opening track visto il periodo festivo in arrivo, è un degno epitaffio per la sua breve ma intensa carriera.

Perfume – JPN recensione

Uscito a fine Novembre ho lasciato scorrere qualche giorno per metabolizzare al meglio il quarto album da studio delle Perfume. J-Pop nipponico di ottima fattura, il disco offre poche novità, parliamo di 7 brani inediti su 14, dove The Opening vale fino a mezzogiorno, due in versione album (Glitter e Laser Beam) leggermente diverse dalla controparte singola, suonano anche meglio se mi posso permettere. Il motivo è semplice siccome da oramai un anno e mezzo si sparano fuori singoli in doppia side (la partenza dettata da Fushizen na girl/Natural ni koishite) ovvero due canzoni compresa una versione senza cantato per i fan del karaoke o come me gli appassionati critici della semplice produzione (superba nel suo genere) del pezzo che la voce spesso offusca, JPN nonostante i pezzi grossi li abbiamo già sentiti, alla fine non delude. Fresco e ballabile, motivetti idioti orecchiabilissimi, un apice musicale for fun di “pura putenza” elettronica meccanica, robotica, meticolosa al servizio del pubblico che godrà delle trame tessute, compresi brani inediti come Have a Stroll o Kokoro no Sports, entrambi papabili future hit. Suona molto bene a tal punto che Triangle (2009) perde lo scettro di album consigliato per cominciare a esplorare il trio Ōmoto/Nishiwaki/Kashino. Ok ho un debolone per Yuka Kashino. Dicevo, VOICE vale da solo l’intero prezzo del biglietto. Quindi le Perfume sono una istituzione in nippolandia, spaccano di brutto e se non vi piacciono non capite un cazzo di musica. Punto. 😀

Plaid Scintilli recensione

Con una settimanina abbondante di ritardo, butto due righe sull’ultimo disco da studio dei Plaid. Fa un certo effetto ascoltarli dopo così tanti anni, belli freschi, estroversi, geniali e perfetti come quando ne sentì parlare oltre un deca di anni fa. All’epoca erano i Black Dog, come Plaid li conobbi con Rest Proof del 1999. Pilastri dell’epoca d’oro Warp, quella di un pugno di uomini che gettavano le basi dell’IDM (Intelligent Dance Music), assieme al magma pulsante dei vari Autechre, Aphex Twin ed LFO, anacrostici quanto basta per staccarsi da un marasma senza particolari stimoli, che scivolava in un flusso da basso spessore ma dettava ancora legge come la techno/rave. Lasciando da parte le parentesi soundtrack di Tekkonkinkreet (2006) e Heaven’s Door (2008), sono passati ben otto anni dal loro Spokes (personalmente il migliore del duo britannico). Scintilli si rivela un disco (ha senso chiamarli ancora dischi?!?) completo, variegato e ricco di particolarità tali da renderlo inossidabile per un bel pezzo. Non si deve per forza essere d’avanguardia ma semplicemente se stessi e un minimo aggiornati con i tempi. Scintilli offre ogni sfacettatura del genere, dalla dubstep all’ambient, cadenze esotiche, piccole escursioni glitch e pure del rave-rock. Senza dimenticare i crismi che li hanno resi fondamentali e apprezzati in questo contesto musicale. Insomma i Plaid li riconosci a un kilometro di distanza! Un suono ancora in grado di regalare emozioni, aspettando pazientemente il prossimo Aphex, di cui al momento, resta solo il silenzio.

Clips of the week

Per favorire la migliorazione in termini di fruibilità del presente blog personale e magari scoprire qualcosa di nuovo, vi presento la paginetta dedicata ai videoclip rotazionali della settimana. Una idea di puro svago che porto avanti da un mesetto e spero vi piaccia. Credo sia un peccato non tenere un minimo di traccia. Niente filo conduttore, va molto a getto, forse un pò il periodo di roba che ascolto, di sfuggita quello che mi tagga il fido Shazam, ciò che mi passa per la mente in quella mezz’oretta persa su Youtube, possibilmente patocco fradicio e prima di andare a nanna, quando le cose mi riescono meglio…

Lady GaGa – Born this way recensione

Oggi esce in via ufficiale il follow up di Fame. Diciamo leaked oramai da una settimana, più o meno il tempo che vi ho dedicato per trarne (spero) una buona codifica di cosa è, di cosa sarà Born this Way. Il carrozzone messo in piedi da Miss Germanotta raggiunge dimensioni oramai senza controllo, ciò che tocca diventa tormentoni da seguire e denaro a palate. Si veste da schifo (aspetta, volevo dire improponibile) e dopo che è passata ai box (chirurgia plastica) è irriconoscibile. Non scherzo, riguardatevi Just Dance. Ad ogni modo visibilità, trasgressione, sesso, sono elementi che fanno parte del personaggio, su cui Stefani ha lavorato molto e bene. Praticamente l’icona perfetta per il pop di oggi, in realtà piegato, ricodificato, adeguato a sua immagine e somiglianza da tre anni a questa parte, quando partì pian piano con Fame. Il pop è volubile ma di fronte a Lady GaGa sono tutti d’accordo e costretti a rincorrere. Merito indubbiamente di una geniale operazione di marketing oramai imprescindibile dalla musica che propone. In pratica ancora una italo-americana ben salda al comando, dopo trent’anni di Madonna e il rischio di tenercela stretta per i prossimi decenni. Tranquilli ci arrivo a parlare dell’album. Spacca, o meglio spaccherebbe. Miscela esplosiva di electropop, dance e contaminazioni di rock sparso in giro, la Germanotta furbetta non vuole rischiare un capello. Nonostante vengano fuori schitarrate di Brian May o il sax di Clerence Clemons, il compitino viene fatto senza sosprese, senza reinventare nulla. Non le si può mica imputare chissà quali colpe, il pubblico vuole un disco che suoni da Lady GaGa, quindi abbiamo prevalentemente le solite casse in 4/4 che tirano dritto, filtroni, vocoderini, tappeti grassi e potenti di sintetizzatori, motivetti orecchiabili. Quando resta sui binari della dance, la stesura dei brani stratificata e piena di effetti, saltuariamente rischiano di soffocare le buone intuizioni, ma abbiamo i momenti più funzionali e riusciti dell’album. In tali paraggi vengono fuori le sue indiscusse abilità artistiche. Il fiuto l’ha sempre. Però siamo arrivati al limite, fa (e farà) ballare lo stesso, in deluxe edition il secondo disco è ubertamarro da dare in pasto ai locali, e diventerà un successo commerciale con pochi precedenti. Ma riascoltando Fame (Monster), divertente, asciutto, essenziale, inquadrato e meno dispersivo, ci si rende conto che Born this Way non regala nemmeno la metà in brani da poter sfruttare come singoli. Le escursioni rockeggianti restano non pervenute, cade spesso nel banale citazionismo, copia-incolla di se stessa e fuori contesto soprattutto verso la chiusura. Cara Joanne Angelina, non è il disco più importante del decennio, parole tue. Proprio no.