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recensione Wall-E.

Orpo boia che diamine ci fanno delle impressioni su un film in CG di produzione americana? Puntualmente evitati, bistrattati, sputati sopra da quando mi fecero ingoiare Toy-Story e Monsters & Co., qualche sprazzo di merda Shrek, Incredibili e altri che non ricordo. Cinema abominevolmente banale, comicità volgare, confusionaria, esasperata. Poi ci lamentiamo se i bambini sono una latrina di volgarità e ignoranza. Da allora Pixar o Dreamworks sempre evitati come la peste. Di fronte a miriadi di post, lettere, commenti, critiche e osannato a testa bassa ancor prima di averlo visto, la mia vorrebbe essere fuori dal coro, ignorata come solito oppure condividere un paio di spunti. Wall-E è un film per adulti. Perlomeno adulti molto piccoli. Sentire il boooong di un Mac quando Wall-E si ricarica, l’evoluzione della pittura che sottolinea i momenti importanti della storia nei titoli di coda, la palese citazione a 2001 dal navigatore robot uguale ad HAL 9000, con una differenza speculare rispetto a Kubrick, dove l’uomo riprende il controllo sulla macchina, sono figatine che notiamo solo noi grandi e forse non tutti, diciamo grandi che masticano un pochino di cinema, chiamiamole “fighettinate” colte. Passerà in secondo piano il messaggio di denuncia velatamente teso ad avvertire come può andare il mondo a puttane, potenzialmente nella spazzatura ci finiamo anche noi. Al resto del pubblico fregherà un tubo, perchè si commuoverà di fronte agli occhi da cane bastonato di Wall-E che per quanto mi riguarda possono emozionare, grazie a una tecnica sbalorditiva in grado di infondere personalità in maniera incredibile ma non fanno un capolavoro. Non lo è. Un buon film, non un capolavoro. Piuttosto finirà cancellata nel cesso la prima parte da brivido, senza dialoghi e gestita in maniera tale da farmi dire “cazzo questa volta è un gran colpo”. Invece rimarrà nella memoria quando arrivano i terrestri (e garantirà un bel calo), perchè funziona nel ritmo e diverte, il trucco per riportarlo su binari commerciali, nel perfetto canovaccio di “come ci si fotte il capolavoro”. Binari inevitabili: volare troppo in alto prima o poi ti bruci e con i soldi che girano rimetterci la faccia non è il massimo. Così si applaude al pre-finale visto 238237489 volte circa, forzato e inutile come un palo nel sedere, e ATTENZIONE NON PARLO dell’immancabile happy ending. Chiaramente non lo posso spoilerare ma è l’ennesima fozatura messa lì per fare leva, un pò come gli occhioni dolcioni di cui sopra. I quali farebbero bene a guardarsi i tanto bistrattati “cartoni animati per bambini” made in Japan, di tutt’altra forza e spessore. Si intende la mia opinione non vuol dire “è un film da cioccolataio”, anzi andateci al cinema. Ma tenete a mente quello che vi ho detto.

Non è un paese per vecchi recensione

Spendo due brevissime righe per il vincitore Oscar 2008. E’ bene ridimensionare gli entusiasmi, il film dei Coen è molto bello ma lungi dall’essere un capolavoro come sventolato ovunque. Ha una storia ben narrata, lineare e avvincente ma non è in grado di lasciare un segno indelebile, non ha trovate memorabili. Occorre un approccio più riflessivo e “impegnato” per il pubblico commerciale ai quali consiglio una piccola riserva. Lo stampo dei registi americani c’è tutto, abbastanza crudo e ritorno allo stile di Fargo mentre nella caratterizzazione dei personaggi troviamo eccellente la prova di Javier Bardem (che però non mi è sembrato un attore non protagonista quanto il contrario) spietato ed inarrestabile nella sua cinica ma lucida violenza, paradossalmente l’unico con dei principi saldi (le promesse van sempre mantenute). Perla da collezione il monologo dove lo sceriffo (straordinario Lee Jones) molla il colpo, soprafatto e sfiduciato in ciò che aveva sempre difeso a rischio della propria vita. I tempi sono cambiati, non c’è posto per uno come lui, in questo finale amaro ma che calza a pennello come velata critica ai giorni nostri.

cloverfield recensione.

Di Cloverfield ne avrete sentito parlare e ne avrete già letto a fiumi, sicuramente attratti dal produttore J.J. Abrams, noto per aver creato Lost (Alias e Mission Impossible 3 per citare altro) e incaricato di rimettere in piedi Star Trek con un film (e rilancio Paramount). Beh, è bene mettere in chiaro cosa sia un film girato interamente in prima persona con una videocamera digitale (ma non nella resa, un digitale convincente l’avevamo in Inland Empire di Lynch) che ricorda lo stile di Blair Witch Project: praticamente nulla di che, sembra il pilota di una serie TV. I dettami del classico disaster a stampo fantascientifico/horror ci sono tutti, dalla creatura inoaffrontabile, alla progenie che viene generata e successiva contaminazione umana, il gioco al massacro in cui pian piano i protagonisti faranno i conti e inevitabile morte. La differenza risiede nell’approccio con cui la storia prende piede, tutto in telecamera amatoriale, sconquassata e ricca di velato vedo non vedo. Pura azione se vogliamo, impressionante e verosimile ricostruzione (a patto di lasciar perdere l’indistruttibilità dell’apparecchio e l’incredibile resa nonostante in notturna, la resistenza fisica disumana e l’impossibile razionalità mantenuta, il sopravvivere dopo che un’elicottero precipita, insomma lasciamo correre…). Ovviamente questo progetto deve essere visto in un contesto più ampio che in primis comprende tutti quei fanboy completamente in preda a seghe mentali di ogni tipo con Lost (in cui Cloverfield ne ha qualche richiamo evidente sin dai titoli d’apertura). Poi via con lo stile J.J.: due creature anzichè una (per via delle dimensioni), il Cloverfield/Kishin ha un antefatto in 4 manga in cui si scoprono esperimenti genetici/marini della fantomatica multinazionale Tagruato e della sua bevanda energetica Slusho (“Slusho makes my stomach explode with happy” come stampato su una maglietta e nella morte di una protagonista), solito sito di contorno come 1-18-08 la data del lancio negli States, l’oggetto che precipita nel mare sul finale e quello “it’s stay alive” distorto a fine titoli di coda. Insomma c’è da perdersi tanti sono i sottili rimandi che gettano base e spunti per numerosi sequel (e cloni visto il successo).
Ecco cosa vi aspetta, da vedere se ne avete occasione, prendetelo come ottanta minuti di intrattenimento senza miracoli. A patto di non soffrire il “mal di camera” e una trama prevedibile…

La forza di questo film è intorno a ciò che si è costruito, non il film stesso. Chiaro omaggio alla storica sci-fi giapponese di Godzilla.

recensione i simpson il film


locandina da Yahoo! cinema

Se qualcuno pensa che i Simpson dopo vent’anni e oltre 400 episodi di carriera siano in fase calante, dovrebbe ricredersi vedendo il box office che si prepara ad uno sforo worldwide di mezzo miliardo di dollari, segno tangibile che la trovata del film nel suo impatto commerciale è riuscito pienamente e conferma di un franchise duro a morire (nonostante le dichiarazioni di Groening). Il film lo dico subito non mi ha entusiasmato o meglio sono entrato con pretese tipiche del fanboy di vecchia data. Ma in sostanza ho trovato meno mordente rispetto allo standard nella serie televisiva e proprio per esser destinato al grande schermo, si doveva osare di più. Lasciamo stare cosa offre oggi il mercato, i Simpon hanno fatto scuola. Intendevo non limitarsi al taglio registico di importanza per l’occasione (libertà come il 3D che si integra bene) quanto l’anima stessa che ci si aspetta da una produzione di questa portata. Una partenza a razzo e le cartucce migliori (alcune veramente geniali come ai bei tempi) se ne vanno praticamente subito per lasciar posto a ritmo discontinuo, gag troppo telefonate e narrazione che sotto sotto riprende un best of a collage della serie stessa (come il “trip” di Homer) e neanche tanto originale. Non avrei perdonato stravolgimenti nella cara Springfield, però ci si poteva spremere oltre le tante citazioni più o meno velate (da biancaneve a terminator 2 o gli innumerevoli finti coreani nel cast a fine titoli di coda).

Il risultato è un episodio da “tivìì” allungato che ripropone i mitici gialli ancora oggi inossidabili (e qualche crepa evidenziata nelle ultime stagioni) ma il senso del film è riassunto già dalla prima battuta di Homer, autoironico: a che serve spendere 7 euro per vedere un episodio che si può tranquillamente guardare nella comodità di casa? Per gli appasionati sarà imperdibile!

Recensione Grindhouse: a prova di morte.

Quentin Tarantino. Prende appunti a Cannes durante una lezione di Scorsese sul cinema (non lo prende per i fondelli, nonono :mrgreen: ) e giustamente ci fa notare che in Italia siamo deprimenti se la nostra massima espressione confluisce solo in lucchetti e vacanze di Natale. Occorre aggiungere altro?
Comunque…
Partiamo dal presupposto che la politica commerciale (mista a censura) in Europa ci ha messo lo zampino arrivando a:
-spezzare in due il progetto originale (l’episodio di Rodriguez, Planet Terror, per ora è fissato a fine Luglio)
-eliminare i fake trailer di intermezzo al gusto slasher+gore in quantità (di Rob Zombie e Eli Roth tanto per precisare dove si andava a parare)
-allungare il cut originale dell’episodio di oltre 40 minuti
benchè sono operazioni riflesso del flop statunitense la corsa ai ripari secondo me vanifica l’opera nell’insieme che voleva essere un omaggio ai b-movies horror d’azione in voga negli anni ’70, easy fun all’ennesima potenza.
A prova di morte è un esercizio di stile che esalta tecnicamente le migliori qualità del regista americano: fotografia sporca e rovinata, audio gracchiante, tagli approssimativi e colonna sonora (come sempre) ricercata enfatizzano l’atmosfera e contribuiscono a creare una regia ferma e meticolosa. Superlativo quando cita se stesso (regalandosi l’ennesimo cameo), in particolare da Kill Bill, non si può negare la bravura manicale del dettaglio e il tentativo di proporre qualcosa che vada fuori dagli schemi. Trash colto e di qualità, godimento. A tanti elogi occorre fare i conti con quello che la macchina da presa maschera, ovvero il risultato nel complesso non diverte come ci si aspetta direi piuttosto freddo e dispersivo. Prolisso e monco di quella alchimia grottesca ed esagerata che ho sempre trovato in Tarantino, la pazienza viene scalfita da monologhi diluiti e pallosi, che funzionano fino a mezzogiorno. A corrente alterna, incostante: se nel primo tempo si gettano le basi per il il personaggio di Mike (un Russel da incorniciare), un ritmo esagitato e di corsa (barocco e fracassone) come gli ultimi 15 minuti sono almeno d’obbligo. Mentre da antologia rimane l’unico botto con le frattaglie che volano e qualche applauso nel sadico gioco della vendetta sul finale, l’ironia del cacciatore che diventa preda. Troppo poco e il paleativo degli omaggi cinefili è cool ma fine a se stesso.

Da vedere con le dovute riserve.

recensione Pirati dei Caraibi: Ai Confini del Mondo.

Come era lecito aspettarsi da un franchise pompato all’inverosimile alla fine doveva lasciare l’amaro in bocca. Non mi va di rovinarvi la visione, inevitabile se avete apprezzato i precedenti episodi. Ma volendo dare un piccolo scorcio della sceneggiatura posso dire che non mi è parsa all’altezza e male ingrana: troppo frammentata e a ritmi alterni, cozzaglia piena di capovolgimenti, dannatamente lunga e in qualche punto perde pezzi per strada. In effetti la vera utilità del film la si trova verso l’ultima mezz’ora, di fronte a una parata orgiastica di effetti speciali e distruzione a gogo nel confronto finale, per arrivare all’unica soluzione possibile che salvi capri, cavoli, pirati e permetta di proseguire con queste avventure made in Disney. Si è persa un pò la magia che ha caratterizzato il primo episodio, la sua genuina e divertente semplicità ora soppiantata da un prodotto finale sofisticato e dispersivo, sfrontato nella forzata ironia e spaccone tanto da citare pure Sergio Leone. Verbinski si è (a ragione) montato la testa. Cast tecnico eccellente tra cui spicca anche Richards: i fan degli Stones godranno.

Spettacolare sul finale e come trovata commerciale Bruckheimer e Disney centrano il bersaglio e sfrutteranno il marchio fino all’ultimo dollaro. Da vedere ma senza aspettative clamorose. E’ un consiglio.

recensione Spiderman 3

Spiderman 3 è il risultato di un regista che ha diretto un film da oltre 300 milioni di dollari. Di budget. E non poteva permettersi errori. Perfettamente comprensibile come alla fine sia facciata tecnica e poca sostanza, con ritmo discontinuo e spreco di un cast convincente, tra cui spicca Maguire che proprio non si rende conto di essere l’Uomo Ragno. Questo colossal campione d’incassi si ferma qui. Mirabolanti sequenze, combattimenti esasperati ed altamente spettacolari, cadute di stile che sfiorano il ridicolo, prevedibilità. Molto alla buona. Non sono un appassionato della branchia Marvel ma credo che ogni buon fan griderà allo scempio di fronte a un mancato sviluppo sulla psicologia dei personaggi e in primis Venom. E la libertà che si è preso Raimi, anche se ci può stare. Colpa della tanta carne sul fuoco, troppa roba che si vuole raccontare a tutti i costi.

In questo enorme frullato disomogeneo, il risultato finale lascia perplessi. Con lo spettro dell’occasione mancata per chiudere alla grande.

recensione Sunshine.

Tipico incipit da film di fantascienza dove l’umanità non ha speranza di sopravvivenza se non per mano di un pugno di eroi. Stavolta un equipaggio è proiettato verso il Sole nel tentativo di buttare una bomba che faccia da defribillatore e risvegli la stella morente. Disseminato da sporadici riferimenti ai classici del genere come 2001 (le sequenze dentro la tuta spaziale) i claustrofobici tunnel della stazione (?) tipo Alien e un cast azzeccato, aiutano a dare forma al film di Boyle. Sunshine è un film costruito fottutamente bene, passatemi il termine, per chi mastica il genere. A partire dal minimo di veridicità scientifica e gli sprazzi da action movie per tenere ritmo, filo di un rasoio che preannuncia la catastrofe, l’opppressione psicologica dello spazio pericoloso e infinito, sono aspetti costruiti con atmosfera e buona regia. Niente storia melensa d’amore, niente esagerazioni ridicole e cattivo gusto. La sensazione di impotenza dell’uomo di fronte alla maestosità terrificante del cosmo cattura l’attenzione quanto basta, per il resto ai protagonisti saltano i nervi, la tensione è palpabile, si ritrova una nave che si credeva dispersa, imprevisti già collaudati e poco originali. Nessun miracolo ma rimane un discreto risultato. Però un alone si avverte, uno spettro che va oltre la sceneggiatura non proprio al top. Dov’è la frittata, l’inghippo? Boyle lo si conosce, la porcata ce la mette sempre. Sospetti che trovano conferma verso i 3/4 quando l’evidente carenza di idee (e forzatura nelle personali visioni, il regista tradizionalmente se le impone) deraglia la pellicola in un banale meccanismo thriller/horror di eliminazione personale equipaggio uno per uno. Se avviene per mano di forza sovrannaturale che mischia onnipotenza e diritto divino, il risultato è sbrigativo e danneggia il film.

Boyle pasticcia proprio nel climax della storia, con una maggiore cura avrebbe rilegato Sunshine a culto nel suo genere. Così rimane un film dal sapore agrodolce.

the illusionist

Per questo Illusionist Neil Burger si affida all’ottima fotografia di Dick Pope e location suggestive in grado di offrire una Vienna di fine ‘800 ombrosa e ricca di atmosfera, veramente magica. Con Philip Glass alle musiche e un cast di tutto rispetto The Illusionist nelle premesse sembra presentarsi sotto una buona stella. Purtroppo non basta. La storia d’amore tra i due protagonisti risulta fin troppo riciclata e lenta, in grado di sbilanciare un plot che garantisca supporto a Norton (magnetico ma non all’altezza delle reali capacità) e gli altri coprotagonisti (Giamatti e Biel, bravi entrambi). Il gioco regge fino a metà durata per poi scivolare in tutta la sua fragilità. Non vengono sviluppati aspetti interessanti come il contesto dell’epoca e la profondità dei personaggi. Il susseguirsi degli eventi è appiccicato in una mesta successione che non regala emozioni e ancor meno un piccolo colpo di scena finale. Rimane un film godibile ma sotto sotto lascia uno sgradevole senso di vuoto a fine visione.

Elegante ma senza mordente. Sprecato.