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Star Trek XII Into Darkness recensione

WARNING! La recensione verte su alcuni punti chiave e scelte tecnico/stilistiche della trama per cui vi sono SPOILER.

Con qualche giorno di ritardo giustificato per vederlo in tradizionale 2D, Into Darkness alla fine è stato metabolizzato. Le premesse erano parecchio alte, visto il buon lavoro di reboot operato dalla Bad Robot, parere non solo personale visto che a oggi quest’ultima operazione del franchise sta portando avanti il primato di lungometraggio Trek con il maggior incasso di sempre. E se le basi del primo non erano all’altezza, i risultati al boxoffice sarebbero ben differenti. Purtroppo partire gasati in sala non è mai una mossa furba. Into Darkness è un buon film, purchè si lasci da parte la visione Star Trek più classica d’insieme. Ho sempre sostenuto come nei reboot si devono tenere a mente omaggi alla memoria storica ma conseguire una propria strada, con le opportune libertà, senza strafare. J.J., Kurtzman, Orci e Lindelof hanno prodotto un ottimo script con riferimenti per non dire copiare spudoratamente l’Ira di Khan, ribaltandone il sacrificio estremo e travisando alcuni parametri fondamentali a scapito di un barlume di coerenza secondo me necessaria. Parlare di fisica in Star Trek è ardito, ma da trent’anni sparare con i phaser a curvatura NON SI E’ MAI VISTO nemmeno negli scorci di futuro tra le varie serie, uscirne poi in derapata fa accapponare la pelle. E’ impossibile, certo se si sanno le regole in gioco. Colpire con delle bordate di missili le gondole della nave equivalgono a far saltare il nucleo e vaporizzare la nave. DA SEMPRE. Assolutamente inqualificabile la missione da caccia all’uomo ricerca e uccidi, con buona pace delle basi morali all’interno della Federazione. I Klingon con l’elmo, guerrieri con onore e guerra nelle vene, incazzati duri NON RILEVANO UNA NAVE NEMICA alla DERIVA nel loro SPAZIO natale?!? Se sono il gancio per confluire su uno scontro impero/federazione inevitabile, siam messi bene. 72 testate che esplodono in pancia a una qualsiasi nave, di tale nave non rimane nemmeno un pulsante della plancia di comando. Chekov in sala macchine? a 17 anni dove ha imparato le competenze necessarie se è un navigatore? Carol Marcus (Alice Eve) in mutande è un bel (succoso) vedere, ma il personaggio è posticcio, così come le discussioni sentimentali tra Spock e Uhura assolutamente superflue. Teletrasporto portatile che ti porta a Kronos con un click facciamo finta di non aver visto. Queste sono tutte seghe da fanboy che urtano fino a mezzogiorno il mainstream, il problema arriva quando alcune escono dal fanboysmo trekkiano e diventano vere e proprie storture contro logica. Perchè all’inizio nascondere la nave sott’acqua, era duecento volte più sicuro restare in orbita, e visto che si può teletrasportare Spock a un passo dal venire incenerito, non lo si poteva mettere prima evitando i rischi con la navetta? Da quando una eruzione fa saltare in aria un pianeta? Scotty che prima si aggrega a un convoglio di navi presso uno spaceport segreto, poi gira all’interno della Vengeance sempre senza che lo becchino (tranne all’ultimo, colpo di scena) quando parliamo di una delle navi più avanzate della Federazione è incongruente. Insomma un minimo di struttura me la devi mantenere. Disastro totale? In realtà messi da parte (ce ne vuole) i vari tecnicismi trekkiani e passando sopra le citate castronerie, il film resta godibile, visivamente emozionante, con la recitazione del villain che da solo vale il prezzo dello spettacolo. Comunque resta l’intesa del cast come da tradizione per la saga sebbene vi sia uno Spock troppo rompicoglioni. Serrato ma meno frizzante del precedente, ho trovato qualche sussulto tra ritmo nelle scene d’azione che di fatto sbandano un pò la visione, della serie alti e bassi. Il personaggio di Peter Weller (il mitico Robocop) meritava maggiore profondità, ma son dettagli. CGI e score come sempre da impatto positivo. J.J. conferma l’essere uno dei registi pigliatutto del momento e gioca facile con materiale tratto da roba già vista e prevedibile (come il recupero di Kirk) che piacerà a un vasto pubblico, in quanto ogni tassello va al suo posto. Scontento per lo zoccolo duro, di fatto non trainante per gli incassi anche se puntualmente andranno sempre a vedere al cinema, divertente per passare la visione con un film fantastico di prim’ordine, con buona pace nostra e gioia per la Paramount. Il brand continua la sua corsa verso la missione quinquennale ma sapere il regista alle prese con Star Wars mette qualche dubbio, nonostante quanto detto. A meno di aspettare più di due anni per cominciare le riprese e altri due tra produzione e post-produzione, si schiva il cinquantenario della serie (2016) e Paramount lo vorrebbe festeggiare. Chi prenderà in mano la baracca?

Iron Man 3 recensione

Dove comincio? Quasi totalmente deluso. Nessuno si aspetta una maestosità di chiusura per una trilogia alla TDKR, siamo in universo Marvel, ci mancherebbe. Ma la caduta e rinascita psicologica, emozionale e tecnologica di questo supereroe meritavano tanto di più. Premesse e trailer davano quasi per certi epicità e conclusione con il botto, merito di un secondo episodio non frizzante come il primo ma di sicuro trampolo (a cui aggiungere gli Avengers). Serietà ed ironia, visto Downey sempre mattatore nei panni di Stark, sono d’obbligo ma non così, non di continuo ogni volta che apre bocca. Sgonfiato quel poco di epico rimasto, ecco che vengono fuori gli scricchiolii come parecchie incoerenze, buchi di trama, valanghe di personaggi messi per riempire e ridotte a mere comparse. Si lascia correre la rivisitazione del Mandarino, l’Extremis e un villain giù di tono, di certo non tiene testa a Stark. Non passano le idiozie alla Disney, il far ridere a ogni costo quando non serve. Merito di politiche sempre più rivolte al mainstream, piuttosto che la fanbase, magari quando si aspettava un cinecomic più maturo, meno ingenuo e facilone, ma ben coeso e affiatato come gli Avengers. Ok, vi danno gli effetti speciali super turbo che giustificano il budget stellare ma alla fine cosa rimane? Un cliffhanger dopo i titoli di coda da dimenticare… I più integralisti lo perdoneranno per un pelo, il pubblico di massa ne ingigantirà gli incassi stratosferici e alla fine ai Marvel Studios (e Disney) va benissimo così.

Cloud Atlas recensione

Al rientro dalla visione qualche impressione. Cloud Atlas scritto e diretto a sei mani, così come sei sono i segmenti temporali in cui si salta in maniera abbastanza coesa ma non di facile lettura, sul destino che si ripete ineluttabile, quasi una condanna, indipendentemente dall’epoca. Cast spettacolare, produzione pure e mi sono stupito sia costato così poco produrlo (100 milioni). Da vedere ma prima di buttarvi in sala occorre almeno qualche riserva. E’ ambizioso, complesso e stratificato ed effettivamente di difficile catalogazione. Immaginate un commistione di generi, drammatico, commedia, fantascienza, spionaggio, avventura, azione, tutto ben dosato mentre tocca temi come amore, spiritualità, evoluzione. Smarrirsi è un attimo. Anche se alcune linee temporali lo appesantiscono e la prima parte fa un pò annaspare, man mano i pezzi si compongono l’amalgama collima e acquista una buona fluidità, lasciando finalmente spazio allo stupore, con scorci di paesaggi e visioni del futuro da tipico cinema Wachoski. Meraviglia finalmente ma dopo una iniziale iniezione di perplessità. La quale purtroppo perdura, rimanendo lì in sottofondo e pronta ad uscire, causata da un lasciato senso di incompiuto mentre scorrono i titoli di coda. Cloud Atlas vuole essere maestoso ma non ci riesce (per poco) in quanto non capace di sviluppare bene tutti i punti che va a toccare. Stretto nei suoi 172 minuti, una durata importante, difficile chiedere di più allo spettatore.

Total Recall Director’s Cut

Devo dire che il sito ehm coff coff di riferimento sulle “uscite” statunitensi mi lista questo esteso di Total Recall previsto a Dicembre, da noi boh ancora troppo presto. Ok lo ammetto non ci sono andato morbido sul blog perchè porta puttana riescono sempre a rovinare tutte le cose con del potenziale, far lavorare di più il cervello al cinema ovviamente porta meno gente e meno soldi. Cheppalle. Anyway le versioni estese di solito me li fanno rivalutare in positivo, a patto che non sia un minuto in più come accadde per Terminator 4. Quindi se il montaggio offrirà più respiro e meno azione, chissà. Moderatamente fiducioso.

Voices of a distant star

Beh quando pensavo di andare a ninna e invece avevo finito di “recuperare” questo cortissimo anime. L’opera prima di Shinkai merita il plauso per la completa realizzazione artigianale e lo sforzo profuso nel dipingere una trama incentrata sulla distanza, la difficoltà di comunicare che può spezzare un rapporto e la volontà nonostante le avversità di mantenerlo. Contrasti fortemente drammatici ma al tempo stesso carichi di poesia. Voices non dura praticamente niente, ciò ne risente per una maggior introspezione dei personaggi e background ma non lo biasimo assolutamente in quanto il messaggio è semplice e diretto, senza fronzoli. In più se animazioni e mecha design non sono all’altezza, addirittura è stato fortemente criticato per questo, vorrei rimarcare un paio di cose. Primo è stato fatto come detto praticamente in casa e non ha avuto a disposizione un team tanto che i doppiatori originali erano suoi amici, secondo lo vedo come una sorta di demo che effettivamente ha proiettato l’autore verso lidi più importanti. Infine rappresenta una sorta di assaggio per il futuro 5cm per second (che caldamente vi consiglio di recuperare), vero capolavoro e dove amplia e sviluppa tali tematiche con il giusto respiro e mezzi tecnici più adeguati.

Prometheus recensione

Visto Venerdì scorso oggi ho avuto la voglia di buttare un paio di opinioni. Di premessa voglio dirvi che per me la fantascienza rappresenta il genere cardine e a me preferito, motivo per cui spero di riuscire a darvi una buona critica. Prometheus poteva (e doveva) essere il ritorno della fantascienza nel mainstream in grande stile, premesse altissime visto il brand a cui fa riferimento e il regista lo stesso del primo che ha dato origine a tutto un filone nel lontano 1979. Il palese prequel di Alien (a scapito di chi andava a dire velato) dipana alcuni dubbi della mitologia Aliena come lo Space Jockey (per quanto non sia lo stesso, non ci troviamo sul mitico LV-426 ma su un vicino LV-233), l’astronave e che cavolo era successo, qualche abbozzo sull’origine dei creatori umani (avete letto bene) e esperimenti biologici (gli Alieni) ma ne apre di abnormi. Purtroppo, non crediate di vedere risolto qualcosa. Qui non ci piove che lo zampino della FOX si sia manifestato, soprattutto nel finale completamente da cestinare ma se letto come chiave necessaria per approntare un film ponte per ragioni ovviamente commerciali tanto da riattaccarsi all’intramontabile primo episodio, ok lascio correre, allarghiamo ancora l’universo. Ma i problemi di Prometheus sono molteplici, tanti, troppi e dove non dovevano essercene. Partiamo con il gioco oramai logoro dell’eliminazione sistematica dell’equipaggio, motivato con uno dei pretesti più ovvi (e banali) che mi sia capitato di vedere, quasi fosse accessorio. Pazienza, ancora lascio correre. E’ la crew stessa che toppa alla grande. In questo genere è praticamente il cuore pulsante, se non funziona le conseguenze sono immaginabili. Poco mordente, coesa, nemmeno affiatata o memorabile. I fan di vecchio corso si saranno gasati per le battute memorabili di Hudson (Bill Paxton), il leader dal sangue freddo Hicks (Michael Biehn), Apone e tutti gli altri, non solo in Scontro Finale anche negli altri della saga (sì anche la Clonazione) abbiamo uno studio più accurato dei personaggi. Quasi a farci dispiacere quando finiscono nel tritacarne. Prometheus offre una serie di comparse che nemmeno si arriverà a caratterizzare eccetto la Rapace, per forza se deve ricoprire il ruolo di Ripley/Sigourney Weaver parte II, un bravissimo Fassbender nella parte del solito Androide, la Theron nonostante ci venga mostrato il suo sederino (con svariate screpolature oramai) è sempre capace, ma perdiana in un ruolo che te la fa proprio stare sulle palle. Completamente inutile. Tutte le figure principali del cast restano invischiate e vittime a loro volta di una sceneggiatura sbrigativa (nella seconda parte accelera e diventa ingestibile) che non coinvolge e peggio minata da incredibili scivoloni, veri e propri gesti stupidi e situazioni grottesche che ne danneggiano il fluire, portando a singhiozzo la visione. La libertà nel genere deve mantenere un certo equilibrio o la “credibilità” e con essa la portata del film, franano inesorabilmente. Si salva qualcosa? Sì, la produzione. Visivamente imponente e tecnicamente ineccepibile, il design di veicoli, la ripresa degli ambienti e l’ampio respiro assieme a una fotografia superba ed effetti speciali di prim’ordine (bestiario raccapricciante, nel senso buono), piazzano Prometheus veramente in alto negli standard qualitativi. Una vera gioia per gli occhi. Chiaramente non basta a sollevarne il giudizio. Di fatto Prometheus aveva grosse potenzialità lasciate inespresse. Auspico una eventuale extended edition per l’home video, magari un montaggio più disteso e meno sfilacciato soprattutto nel secondo tempo.

Pure, Svezia sinonimo di qualità.

Se siete appassionati di Cinema, vi consiglio di buttare l’occhio su MUBI. In vetrina una selezione del cinema Scandinavo e sono capitato su questo, che alla fine non è male considerato il costo zero per la visione, e intendo nemmeno ci si deve registrare. Provatelo, se apprezzate un tipo di cinema moderatamente impegnato. Del resto non c’è solo Lars Von Trier da quelle parti…
Ah un mio commento? Tra Mozart e Kierkegaard si dipana la storia di questa ragazza nel tentativo di attuare una propria scalata sociale e fuggire dalla propria condizione. L’interessante prova intellettuale della regista ma soprattutto della Vikander, mantengono il film su un discreto e appagante livello. Vuallà.

Tron Legacy recensione

E via che è andato il primo film del 2011. Piccola premessa, Tron del 1982 resta per me un filmettino diventato di culto (per il pubblico) solo per le tecnologie visive realmente rivoluzionarie per l’epoca. Ad ogni modo ammetto come sia stato importante per il mondo del cinema. Frammentato e oscuro in origine, era un pò arduo pensare che il seguito arrivato dopo quasi trent’anni centrasse le aspettative create negli ultimi mesi. Legacy è maestoso, dalla capacità espressiva indiscutibile. Da buon appassionato, non posso far altro che inchinarmi al lavoro svolto. La “griglia” arriva in tutto il suo fascino freddo e digitale, carico di citazioni e in grado di raccogliere in pieno l’eredità del passato. Le avvisaglie di un film senza mordente arrivano ben presto, nella porzione iniziale con l’introduzione del figlio di Flynn, cui il padre è sparito nel cyberspazio videoludico da lui creato anni prima. Una ovvia forzatura per compensare chi non si è visto il precedente episodio, necessaria se vogliamo, capace di ingolfare il ritmo usata in questo modo. Il film sostanzialmente decolla una volta dentro l’universo, per poi (ri)perdersi dopo poco. Un paio di sequenze di combattimenti con i dischi, corse e fughe con le immancabili moto, qualche cazzottone a tradimento, sbordatine new-age, finale telefonatissimo. That’s all. Nel complesso il plot ha la forza della scoreggia di un topo morto, senza colpi di scena e lascia (volutamente) tante cose senza un perchè. L’alone di mistero sulle sfacettature del cyberspazio possono anche starci, lasciando quindi allo spettatore come riempire le varie lacune, se mai ne avesse voglia. Purtroppo pesa lo scarso delineamento dei personaggi comprimari, che arrivano e spariscono, senza lasciare traccia. Neanche i protagonisti comunque se la cavano degnamente. Non si può incolpare ne la produzione, ne il regista. Tron Legacy è un film per il mercato di massa e a volte penso come ci prendono seriamente (evidentemente) per lobotomizzati. Meglio lasciarsi cullare dal contrappunto musicale fornito dai Daft Punk in evidente stato di grazia, essenzialmente agevolati in un film tecnologico come questo, oppure uscire dalla sala con un completo senso di soddisfazione? Diventa sempre più difficile. Riassumendo Legacy è scontata evoluzione del Tron 1982, peccato che allora la tecnologia aveva detto la sua e lo ha rilegato a film di culto. More of the same? Oggi il panorama è ben diverso. Divertente? A qualcuno andrà lo stesso bene. Francamente a me va stretto. Poteva essere un film memorabile. Ma come detto non lo si è creduto necessario. Grazie lo stesso, Disney. Appunto conclusivo, hanno rotto il cazzo con il 3D. Continuano a forzare le visioni, in zona reggio/modena non esiste in 2D. Solo 3D. Direte, beh dove sta il problema? Presto detto, già di suo è un film “dark”, con gli occhiali diventa talmente buio da rendere ardua la normale visione. L’effetto stereoscopico praticamente inutilizzato. Mi chiedo per quanto andremo avanti con questa porcheria.

Barbarossa recensione.

I film italiani li evito praticamente al 99% delle volte. Scelta etica, molto personale ma il cinema nostrano recente è più orientato al disinteresse che a reale valore artistico. Almeno come grossa distribuzione Barbarossa esce con l’idea diversa da un made in italy che alimenta solo se stesso e non varca l’estero. Almeno chi apprezza il genere storico, con le solite libertà. Almeno a chi si accontenta, lasciando da parte il fatto che diverrà un film per la TV in due parti. Fortemente voluto dalla Lega Nord (io Bossi non l’ho mica visto ma dicono che c’è in un cameo), darà fastidio e in tanti partiranno già con dei pregiudizi difficili da dipanare. Nemmeno fosse un film della propaganda fascista negli anni che furono. Coprodotto dalla Rai e dal Ministero dei Beni Culturali tanto da racimolare 30 milioni di dollari, un budget astronomico per un film made in Italy, che non vediamo comunque su schermo. Roba da incazzarsi, siamo italiani. Manca l’imponenza, il numero di uomini, le truppe a cavallo sembrano un pugno di mosche, Milano è un paio di torrioni a dir poco. Arriva la computer grafica, evidente a tal punto che stona. Sequenze allungate, rallentate, ripetute, quasi a voler giustificare i 138 minuti di durata. Ma non ci sono solo grossolane sbavature. Fosse per quanto scritto, darei fuoco alle polveri ma c’è qualcosina che funziona. Raz Degan mi ha convinto. Non so come ci sia riuscito, forse la simpatia per lo Jager, però quando ci si mette sembra il William Wallace della Padania. Rutger Hauer e Amraham Murray hanno avuto tempi migliori (Blade Runner il primo, Amadeus il secondo) ma come dire ci si accontenta di essere arrivati qui e fanno il loro dovere. E infine la storia regge. Barbarossa non è un filmaccio da buttare, nè tantomeno uno spreco già dopo aver visto il trailer come tanti scrivono in giro, spalando letame con troppa facilità. Dico solo che in Italia si spacciano per capolavori dei veri e propri aborti. A Barbarossa il merito di cimentarsi in un genere che non è tipicamente nel DNA della produzione nostrana.

Anamorph recensione

Oramai i thriller a base di killer seriali hanno come modus operandi il Se7en (1995) di Fincher: ambienti luridi, buio spezzato dai fasci delle torce, omicidi brutali che vanno oltre lo slasher, disturbati, ritualizzati, malati, che compongono un puzzle lucido e psicotico nel loro insieme. Ciò non solo nel cinema come i vari Saw o il recente The Horsemen, ma anche nei telefilm alla CSI e Criminal Minds, insomma oramai abbiamo uno standard di fabbrica per questo genere. Il punto di vista è la chiave di lettura di Anamorph che nello schema dello psicopatico di turno risulta azzeccato e funzionale: l’anamorfosi sovverte il piano visivo e ci ricorda che c’è sempre un’altra angolazione, sottolineato fin dai (bellissimi) titoli d’apertura. Il canovaccio regge ma ha punti oscuri e qualche contraddizione, sorretto fortunatamente da un buon Dafoe. Il personaggio viene reso troppo chiuso nella sua ossessione maturata dopo la presunta uccisione del serial killer, consumato dal non essere riuscito ad evitare la morte di una ragazza (usata praticamente come esca) a cui era affettivamente legato. Dopo cinque anni di pausa ritorna (o emula? La concessione del dubbio è legittima) a uccidere riassemblando i corpi in veri e propri quadri alla trompe l’oeil, con all’interno un messaggio che verrà solo colto nel finale. Come detto il personaggio è chiuso, consumato dai flashback a tal punto da risultare insopportabile, centro assoluto di ogni sequenza che a tratti si distacca dalla trama in una noiosa analisi intimista. Andando in questa direzione la spalla di turno è praticamente inesistente e mal caratterizzata così come la protagonista femminile, dell’assassino a malapena ne vedremo il volto e non sapremo niente di lui. Ovviamente non è obbligatorio conoscere il seme delle sue folle gesta, ma il “troppo niente” non funziona, i pezzi non si compongono. Così il finale sembra azzeccato ma non culmina e convince come dovrebbe, per quanto onirico e inquietante, smarrisce e scivola via senza lasciare il segno, come tutto il film.

Terminator 4: Salvation recensione.

Nel tempo dei grandi reboot, mancava il ritorno del cyborg inplacabile per eccellenza, Terminator. Lasciando perdere il terzo episodio, coreografico ma senza un briciolo del carisma necessario a farsi ricordare (a parte gli sviluppi per la trama), il genio visionario di Cameron ha regalato nel passato una visione prossima alquanto preoccupante e plausibile di uno scontro uomo/macchina culminato con lo sterminio di massa per mano di Skynet, super cervellone militare che prende autocoscienza e decide di pensionare l’umanità cremandola con tante belle esplosioni nucleari. Nei film precedenti si è assistito ad invii di cyborg indietro nel tempo per cambiare il futuro, dove Skynet ha pensato di eliminare il grosso problema della resistenza umana che ha un leader di nome John Connor: prima ha tentato di terminare la madre, poi Connor da adolescente ed infine da giovane. Il reboot con la tag più scontata del mondo (la fine ha inizio), ci porta tranquillamente nel 2018 in piena guerra dove per farla breve Connor dovrà salvare una persona chiave del suo passato. Il film diciamolo fin da subito è tecnicamente ben realizzato, discretamente serrato e accessoriato di artifizi tipici del genere (esplosioni, scene d’azione) ricco di citazioni quanto basta e in grado di svelare alcuni particolari rimasti oscuri ai fan più esigenti (tipo le cicatrici di Connor). Purtroppo la sostanza complessiva viene a meno su trama e dialoghi, scontati e poco originali. Una spallata arriva di fronte ad incongruenze grossolane (chi vuole può leggersi alcune mie seghe da fanboy su Movieplayer), colpa dei tanti tagli subiti in fase di montaggio. Il film risulta debole e l’accoglienza del pubblico (leggi incassi) non proprio entusiasmante mette in dubbio il proseguio della saga (sono previsti due ulteriori seguiti), nonostante un buon Bale e tutto il cast abbastanza credibile. Da vedere per gli amanti del genere e appassionati degli endoscheletri metallici, gli altri possono lasciar perdere, compreso un cameo (digitale) di Schwarzenegger…

the orphanage recensione

Ghost story per niente scontata ma ricca di spunti interessanti. Ci deve aver creduto anche Guillermo del Toro per aver prestato il nulla osta a questa produzione dell’esordiente Bayona, il quale in poco più di una oretta e mezza ha creato una buona alchimia fatta di chiari omaggi al cinema di Amenabar (the others), Shyamalan (sesto senso) e talento nel modellare la struttura della trama che regge punto su punto. Horror non direi, nemmeno thriller, piuttosto un lento ed inesorabile scavo psicologico dove il passato riaffiora in un terribile incubo e Belén Rueda ci rende perfettamente a disagio (in senso buono) con la sua interpretazione, sostenuta da un ambientazione/scenografie da brivido e l’impianto musicale squisitamente inquietante. E’ bene mettere in evidenza che i meccanismi per creare il contorno fatto di tensione e paura sono un pò telefonati, un pò abusati (della serie i soliti clichè). Bilanciare illusione e realtà può regalare sufficienti emozioni, e in questo “l’Orfanato” riesce molto bene. Il consiglio per uscire soddisfatti a fine visione resta non fermarsi alla superficie metafisica (il lato horror/paranormale) ma lasciarsi condurre verso il celato dramma interiore dei protagonisti.